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Celiberti o della magia

Celiberti è andato “oltre l’informale” usando la scrittura dell’informale per calarsi nel proprio groviglio d’uomo ed estrarne il magma sensitivo, le cadute e gli entusiasmi, le passioni, le estasi, le paure, il grido, le memorie scaturite da un segno, da una scritta, da una traccia informe, da una ferita, come la scintilla dalla pietra focaia. La superficie della tela martoriata da sciabolate di colore, da parole incomprensibili, da frecce, da sigle inquadrate entro finestrelle aperte misteriosamente su fondi scuri atemporali, feticci di notturni riti d’iniziazione; le splendenti cicatrici nero bruciate, i singhiozzi rossi, il sogno d’un’ innocenza azzurra librata in spazi mattinali, il lividore giallo-bruno dell’angoscia, la passione avvolgente d’un’infanzia dell’uomo che non si rassegna alla noia della maturità in colate viola-amaranto, la solitudine dei grigi. Vaghe forme d’uccelli attraversano spazi turchini come un canto d’aprile eterno. L’impronta d’una violenza patita trasformata in immobile meriggiare fatato.
Di quando in quando dardi straziano uno di questi uccelli. I sogni muoiono lentamente, uno dopo l’altro, e l’uomo si ritrova in un deserto di reperti carbonizzati dai quali emergono solo scheletri di parole. Il quadro, nella macerazione interna delle immagini, si dipana in tessuti intricati, romba dentro se stesso come una pietra cava, le sue lacerazioni note di una partitura che ha bisogno dell’impasto polifonico di suoni stridenti o vellutati per mantenere l’equilibrio. Celiberti ripropone una vicenda intima, come nelle “Serre” del’48. Lo stesso impianto strutturale grafico. Ma quanta chiarità allora e ordine e misura e trasparenze acquose come aria di primavera lavata dalla pioggia. Il giovane non era stato segnato ancora dall’esperienza, la poesia era elegiaca, rugiadosa, fresca di sentimenti appena sbocciati. E il tormento di vivere ancora lontano, oltre la cerchia prospettica quattrocentesca delle colline d’un Friuli incantato. Le tarsie allora erano rosa e verdine e giallo pallido e celeste così diverso dalle campiture oltremare dei cieli d’oggi, che anche quando esprimono miraggi di vergine candore tradiscono l’aggressività di giorni sottesi dalla dialettica fra dramma e gioia di vivere.
Per il Celiberti attuale, saettante e inquieto, alla ricerca continua di “ubriacature” tali da riempire una ansia d’esistenza che gli urge dentro, portato narcisisticamente a ripercorrere la linea spezzata e improbabile delle emozioni lasciate al pascolo di se stesse oltre che allo sbaraglio della logica e di qualsiasi ordine prestabilito, ha rappresentato nel ’67 una tappa fondamentale nell’interiorizzazione del linguaggio pittorico l’esperienza di Terezin.
Terezin, presso Praga, è un carcere napoleonico dove i nazisti imprigionarono quarantamila ebrei, di cui quindicimila bambini, in attesa della morte nelle camere a gas. Molti di questi bimbi lasciarono diari e poesie. L’orribile cronistoria d’una tragedia che li annientò prima ancora che fisicamente in quanto avevano di più puro, e sacro: la loro fanciullezza, venne pubblicata e, per caso, capitò nelle mani di Celiberti.
Che Terezin sia stata per Celiberti un’intima esperienza personale, forse addirittura cercata per caricarsi, e non un’occasione per impostare un discorso su dei contenuti storici, lo prova il permanere delle suggestioni figurali di quel periodo nelle opere più recenti. Opere che hanno superato e consumato il clima diaristico per farsi testimonianza di un rimpianto, di un’inspiegabile paura o di visioni di un’estasi artificiale assai simile allo stato del drogato. Licio Damiani (in “Le Arti”, gennaio-febbraio 1971)

 


Giorgio Celiberti pittore-archeologo

Cuori intrecciati, dipinti e graffiti su “chiarità di muri” o su pareti nero carbone, cuori rossi e azzurri e grigi allineati assieme a riquadri che accennano a impronte, a scritte, a finestrelle d’affreschi scrostati, resi illeggibili dal tempo e da invisibili mani, divenuti segni indecifrabili, brividi pietrificati d’esistenze. Tracce di cuori allineati che sembrano cartilagini di fiori, di foglie, o voli sperduti di farfalle, o forse soltanto picchiettature di vecchi intonaci dalle quali il caso trae composizioni di enigmatiche storie.
Giorgio Celiberti, nelle più recenti opere serigrafiche arricchite da interventi diretti, riassume e reinventa, con freschezza di nuova primavera, un lavoro figurativo pluridecennale, le cui testimonianze articolate nelle varie epoche animano il suo ampio e spazioso studio, udinese, “piccolo compendio dell’universo” di questo artista estroverso, di fantasia incandescente.
Grandi tele segnate da una gestualismo vibrante, da una scrittura di segni che lampeggiano su fondi scuri, terracotte ceramiche, sculture irte di memorie ancestrali, tavoli di un apparente disordine, brulicanti di fogli e di vita.
Di quella vita generosa, ricca di echi, di richiami, di appunti esistenziali. Celiberti ama gli spazi ampi, articolati e labirintici insieme, pagine luminose nelle quali la modernità si carica di contenuti psicologici, a esprimere la vitalità e la generosità dell’uomo e dell’artista.
Celiberti ha un temperamento ricco di complessità interiori, cerca l’incontro, il rapporto con gli altri, ma trattiene in sé un fondo d’innocenza istintiva e primordiale. Nella sua opera anche il richiamo archeologico, diventa modello di un linguaggio figurale, esprime senso di appartenenza a una cultura di respiro umanistico. Atto intimo di autentica religiosità, assume il significato di una ricerca appassionata dei segni dell’uomo e delle sue radici. L’archeologia come sguardo su un tempo ricondotto al presente, come binomio vita-morte, mistero che segna la continuità della storia? L’interiorità dell’artista è la risultante di sedimenti depositati dal mare di vicende, di sensazioni, di impressioni sempre drammatiche avvertite, recenti e remote.
Tutta la pittura di Celiberti è intrisa di questi motivi. La sua gestualità informale, balenante di calligrafie astratte, di magmi indistinti, nasce dalla necessità di recuperare le tracce della presenza dell’uomo, delle sue emozioni, delle sue tragedie.
Ma se nel ciclo di Terezin della metà degli anni Sessanta, ispirato alle poesie dei bambini ebrei deportati e sterminati nei lager nazisti, la tensione emotiva si liberava in una immagine esistenziale ancora ribollente di umori e di violenti cromatismi, se negli Interni/Esterni dalle vaste intelaiature nero-minerali tracce di cronaca quotidiana, divenute spettacolo ripreso dai muri urbani, comunicavano attraverso chiarori bianchi, gialli, rossi e sottili sciabolate di viola un sentimento angoscioso del mondo, carpito con vitalistica e affascinata urgenza, nelle opere successive la tensione si è mineralizzata, è diventata concrezione geologica, come per sottolineare la situazione di una contemporaneità che non offre prospettive di uscita.
Le grandi farfalle, gli uccelli eleganti come fregi di ceramiche persiane che si libravano su cieli oltremarini, le scritte, i cuori intrecciati, si sono ridotti a forme pietrificate, resti di una catastrofe cosmica avvenuta nella coscienza di ognuno.
Il processo si è attuato per gradi. Dapprima le forme si sono atrofizzate nella durezza sabbiosa delle malte, mantenendo inalterato lo splendore dei colori.
Fiori, foglie e uccelli, farfalle apparivano nelle loro impronte ancora freschi, quasi le linfe, pur arrestatesi nel moto vitale, venissero esaltate in tutto il loro splendore nell’attimo magico e ineffabile che ne precede la fine. Il pittore-archeologo si soffermava davanti ad essi con la meraviglia dello scopritore di antichissimi documenti sepolcrali, che ritrova tra le mani i semi dei cereali depositati nella cella funeraria per alimentare simbolicamente lo scomparso, in grado ancora di generare l’ultimo germoglio. Erano foglie e fiori e insetti di una purezza estrema, ma riflessa dalle suggestioni della memoria, bagnati da una luce immobile, interna, irreale. Una bellezza nitida e arcana di cose morte e struggenti, da contemplare nelle bacheche dei musei botanici e di entomologia: bianchi abbacinati di calce, celesti trasparenti, verdi soffici di smeraldo, rosa impalpabili appena ammorbiditi da una sottile polvere secolare. Poi il processo si è fossilizzato, si è completato. Della forma è rimasto il calco nell’argilla, una smorfia di dolore, un grumo di vertebre consumate, il volo degli uccelli per sempre bloccato nelle pieghe del sasso. Fino a che il nucleo organico si è spappolato, è divenuto cenere di deserti pietrificati come i sementi di un’età che ha bruciato ogni valore, resti di un’esplosione atomica già consumata nelle coscienze.
Non rimaneva allora che recuperare le orme di una naturalità devastata, riandare alla ricerca dei segni dell’uomo. Erano i segni di un’era spenta, la cui intensità gestuale consente ancora un atto potenziale di comunicazione. Come i graffiti sui muri di Pompei o le scritte, le incisioni, le lacerazioni lasciate sulle pareti delle carceri di ieri e di oggi dicono d’una realtà esistenziale che si propone come presenza per chi si sforza di leggere e di decifrare, così le grafie, gli ideogrammi, le sbrecciature, gli sfregi impressi nei terrosi affreschi su tela o nelle pagine di libri già stampati da altri, riscritti come fogli di diari personali, esprimono la storia di una umanità che lancia il suo grido contro ogni violenza subita, e la storia collettiva diventa anche storia individuale.
I murali di Celiberti come una discesa nell’inferno del tempo. Burri, Fautrier, Tàpies e gli altri maestri dell’Informale offrono all’artista i supporti di un linguaggio materico, ma i contenuti definiti da questo linguaggio appartengono a una cultura figurale di respiro umanistico.
Il riporto archeologico non determina, comunque, una dimensione mitica del tempo, né si proietta nella direzione di un Citazionismo classicista. L’acquisizione del segno arcaico ed essenziale non avviene come recupero o reinvenzione di culture iconografiche antecedenti ma unicamente la traccia d’una presenza che è sempre uguale nel tempo perché ha sempre tentato disperatamente di superare il tempo. Il colloquio di Celiberti con le scritte lapidarie del sepolcreto di Ostia antica, le tombe etrusche di Tarquinia, i ruderi informi sparsi lungo la via Appia o la campagna laziale, le pietre romane etrusche di Aquileia, gli emblemi longobardi di Cividale, le mura sassose di Venzone, le pagine criptiche di libri sacri remoti, gli obelischi funerari incisi da ideogrammi illeggibili, i totem misteriosi, i muri di centri urbani degradati, eppur vissuti, questo colloquio dunque, avviene al di fuori di ogni metro letterario. “mi piace attraversare i musei guardando ciò che mi serve senza catalogo” confessa Celiberti.
Senza catalogo. Cioè senza schemi culturali predeterminati, senza pretese di collocazione scientifica. L’incisione sul marmo, una striscia di mosaico, un coccio, una parete affrescata, le immagini graffite e rilevate, sono le impronte di un viaggio sempre ricorrente nell’uomo, con la sua gioia e il suo dolore.
Del resto, Celiberti non ripropone, nei suoi frammenti reperti monumentali né stilemi di composizioni appartenenti a una sfera creativa, artistica in sé. Ricostruisce i simulacri di un lavoro anonimo, l’opus incertum e l’opus reticolatum delle costruzioni romane, i massi rozzamente e possentemente squadrati delle mura etrusche, le cinte di sassi che ingrigiscono i vicoli della longobarda Cividale, gli acciottolati delle strade lastricate di Pompei incise dai solchi dei carri come se la vita continuasse a scorrere su di essi ancor oggi, i lacerti d’argilla delle anfore che sbucano dalla terra nuda; una contemporaneità di motivi sui quali si innestano le frecce della segnaletica stradale, le sigle, le figure dei manifesti contemporanei, divenute anch’esse antiche, i dialoghi, le confessioni, gli smarrimenti, la solitudine, la felicità, i sogni dei giovani d’oggi. Il ciclo dell’esistenza umana diventa un ciclo di natura, perenne come le rocce e le pietraie.

Licio Damiani

(in “Arte In”, settembre-ottobre 1992)

 

 

Celiberti: epos d’amore e di dolore

A metà degli anni Sessanta Celiberti conobbe il lager nazista di Terezin, dove morirono migliaia di bambini ebrei. L’impatto emotivo, sull’artista udinese, fu enorme e ne determinò tutta l’opera successiva. Il vitalismo drammatico, espresso nell’istintività creativa del gesto, si sostanziò di profondi contenuti morali. L’atto del dipingere si fece riflessione, traccia d’avventura dolente per gli “amanti – a dirla con il poeta Dylan Thomas – che abbracciano tutte le angosce dei secoli”.
La tramatura informale balenante delle sue tele precedenti – gli Interni/Esterni dalle vaste intelaiature nero minerali, brulicanti di segni astratti, d’impressioni indistinte, accesi da violenti cromatismi carpiti con affascinata urgenza dalla cronaca quotidiana, divenuti spettacolo ricalcato dai muri urbani – si ispessì in viluppi cupi e sanguinanti.
Lo choc di Terezin è stato vissuto da Celiberti, più che nella dimensione di tragedia collocata in uno spazio e in un’epoca definiti, quale occasione per innescare un intimo meccanismo di riflessione sul dolore del mondo. Terezin, narrata con figuratività “scorciata”, singhiozzante, frammentaria, divenuta una delle tante immagini del male, dovunque si annidi e chiunque colpisca.
Il recupero dei disegni, delle scritte, dei frammenti di pensieri e di poesie, incisi dalle piccole innocenti vittime sulle pareti della prigione, ha consentito al pittore di proiettare nel tempo l’universalità di tragedia contenuta nelle loro anime indifese. Attraverso le storie personali – sembra dire l’artista – si compone la storia del mondo. E il gesto, così, si è fatto confessione, o rivelazione, di un patrimonio inesausto di memorie, suggestioni, echi devastati. Ma anche segno di speranza.
Le grafie, gli ideogrammi, le sbrecciature, i cuori intrecciati su “chiarità di muri” o su pareti nero-carbone, cori rossi e azzurri e grigi allineati assieme a riquadri che accennano a imponte, a scritte, a pertugi, a slarghi, d’intonaci scrostati, resi illeggibili, divenuti segni indecifrabili: tutto questo dice di un’umanità che slancia il suo grido contro ogni violenza subita, un’umanità bruciata da un bisogno di dialogo, di comunicazione, “devastata” da un’urgenza di tenerezza e di amore.
Biografie segrete di innumerevoli vittime anonime della storia lasciano tracce sulle superfici delle tele affrontate con impeto, delle malte, dei metalli lavorati e tormentati, o nelle pagine di libri scritti da altre mani, trasformati dal segno e dal colore sovrapposto in appassionati diari privati, “Finestre dell’anima” ricomposte sulle gabbie tipografiche originarie con incubi d’imposte chiuse, con emblemi di esistenze spente, segnali di martirio e di protesta, orme – le ha definite l’autore – di vite fossili. Scorrerne le pagine “significa inciampare, spalancare una porta, imbattersi in uno spazio costrittivo, essere inseguiti e braccati e tuffarsi n una, forse, irraggiungibile libertà”, spaziare nei cieli di cosmografie fantastiche eludendo i condizionamenti, le miserie, le crudeltà del quotidiano. Infissi tarlati e polverosi di balconi recuperati chissà dove svelano, sui vetri appannati, criptografici pensieri d’innamorati ignoti.
La produzione di Celiberti scorre con ritmi febbrili e divoranti. Trasforma l’appunto, la scheggia, l’annotazione rapida, la stenografia delle passioni annegate nell’indifferenza, in elaborata, afferrante architettura compositiva, in squarcio aperto su anelti, su slanci di purezza violata.
Una tensione vitalistica, “prensile”, nella quale si coaugulano, si impastano, brandelli di indefinite vicende collettive e di accenti personali, frantumati e ricomposti in arcani assemblaggi.
Terezin diventa la porta d’ingresso dell’Ade, il luogo d’incontro con le ombre che si affollano intorno all’errabondo Ulisse disceso agli inferi per interrogare il passato.
L’artista rende eloquenti, e risonanti di un’eco di contemplazione pietosa e incantata, materiali e residui figurali delle provenienze più diverse, riconducibili a una favolosa unità alchemica.
Ed ecco gli obelischi con il loro brulichio d’incomprensibili geroglifici, i totem misteriosi avvolti come in una nube di leggenda, i cippi, le pietre miliari che conservano brividi di vicende vaghe, dissolte, i luminosi fiori mineralizzati simili a calchi di un lontano, terso paradiso perduto. Sembrano di sasso e sono invece il prodotto di tecniche sofisticate, supporti di un’Arca vetero-testamentaria e miracolosamente recuperate in labirintiche avventure interiori.
Il pittore-archeologo si sofferma davanti a essi con la meraviglia trepida dello scopritore di antichissimi monumenti sepolcrali, che ritrova fra le mani i semi dei cereali depositati nella cella funeraria per alimentare simbolicamente lo scomparso, in grado ancora di generare l’ultimo germoglio. Una bellezza nitida e misteriosa di cose morte e struggenti: bianchi abbacinati di calce, celesti trasparenti, verdi soffici di smeraldo, rosa impalpabili appena ammorbiditi da una sottile polvere secolare, sciabolate di nero.
Della forma rimane il calco nell’argilla, una smorfia di sofferenza, un grumo di vertebre consumate, il volo degli uccelli per sempre bloccato nelle pieghe del sasso. Fino a che il nucleo si spappola, diventa cenere di deserti pietrificati come i sentimenti di un’età che ha distrutto ogni valore, resti di un “olocausto” consumato nelle coscienze.
Sono i segni di ere spente, la cui intensità gestuale consente, tuttavia ancora un atto potenziale di comunicazione.
Come i graffiti sui muri di Pompei cancellata dall’eruzione vulcanica, o le parole, le lettere abrase, lasciate sulle pareti delle carceri di ieri e di oggi dicono d’una realtà esistenziale che si propone quale presenza per chi si sforza di decifrarli e di capirli, così i balbettii grafici, gli sfregi impressi nei terrosi affreschi su tela, sui supporti che mimano lastre pietrose, dicono di un’umanità che lancia il suo grido contro ogni torto, ogni sua sopraffazione, ogni violenza subita.
L’arte di Celiberti recupera le devastazioni del tempo, rivive sulle macerie disseminate da una barbarie ferina, è raggio di sole che batte su cataste di lapidi spezzate, su lacerti d’affreschi, su frammenti di sculture, di timpani, di architravi decorati di templi, di colonne frantumate, di pagine mutile. Il sole è presente perenne. Il sole è la coscienza nostra, di uomini del presente, che in questi frammenti ritroviamo l”anima” dalla quale siamo stati generati.
Il riporto archeologico non determina, comunque, una dimensione “storica” del tempo, né si proietta in direzione citazionistica. Il segno arcaico ed essenziale non reinventa culture iconografiche antecedenti, fissa una presenza che è sempre uguale nel tempo perché tenta disperatamente di superare il tempo.
Ed ecco, ancora, l’artista aggirarsi, sempre sull’onda del sentimento venutagli da quell’ormai lontano incontro spirituale con i bambini di Terezin, nella memoria dei cimiteri ebraici. Le stele funerarie sembrano essere uscite quasi intatte da incendi catastrofici. La Babilonia delle torri mozze solcate da indecifrabili scritture si erge in aloni corruschi di bibliche scenografie. Si ricompongono i documenti di pietra contenenti le leggi della Torah e gli intrecci della Cabala, si squadernano le tavole dei comandamenti divini ricevuti da Mosè sul monte Sinai, accanto alle confessioni romantiche tracciate da mani anonime di ragazzi sui muri delle periferie, in una informale storia dei sentimenti.
Il ciclo dell’esistenza umana diventa un ciclo di natura, perenne come le rocce e i sassi. E sfida l’oltraggio rilanciando con forza “geologica” il messaggio della propria sacralità.
Perso in una sorta di eliotiana Terra desolata, l’artista “affiorando e affondando” attraverso “gli stadi della maturità e della gioventù”, entra nei gorghi della storia traendone “aride orme” che “non fanno male ad alcuno”, tra guizzare di lampi e “umide raffiche / apportatrici di pioggia”.
Eppure questi frammenti astratti, questi lacerti fossili, risvegliano “radici sopite”, nutrono “secchi tuberi” con linfe di sotterranee energie. E il “cumulo d’immagini infrante” torna a rifulgere e ad animarsi in una fervida luce mentale.
Come nel poema di Thomas Eliot, caposaldo della poesia del Novecento, i temi dell’amore, della morte, della rinascita, che in Celiberti avviene attraverso il sortilegio di ricordi sedimentati nell’animo collettivo, si impastano a nodi di potenziale fertilità; e nell’artista udinese questi nodi approdano a un’accettazione rasserenata del drammatico volgere del tempo.
A Eliot, insomma, ma anche ad altre epifanie poetiche, rinviano le tracce di dimenticati naufragi raccolti dalla pittura e dalla scultura di Celiberti sulle aride spiagge del vivere, e dal loro confuso mescolarsi emerge il “viatico” per sciogliere l’enigma di un’identità ritrovata, di una consapevole accettazione.
“I sogni cozzano / e si frantumano” – dal vortice di versi inquietanti sembra definirsi l’arte di Celiberti – “Lascia parlare il vento / Così è il Paradiso… Lascia che gli Dei perdonino quel che / ho costruito”.
Nell’errare dantesco per la “selva selvaggia e aspra e forte” di esperienze personali e dal magma indifferenziato di simboli, contenenti, civiltà, delitti, donazione generosa, si leva l’appello profetico: “Uomini siate non distruttori”. La memoria dell’artista è la salvezza dal nulla, dalla notte degli orrori. Dai giorni della catastrofe e delle rovine, dal fango dell’indistinto, egli trae la gemma spezzata e la fa rilucere, sia pure per attimi e pulsioni.
La creatività di Celiberti diventa polimaterica. Il reale, la fiumana selvaggia e irrazionale della realtà nel suo scontrarsi, evolversi, precipitare di elementi è assunta nel gran fiume poetico e poesia diventano ogni immagine, ogni oggetto, ogni documento del tormentoso affannarsi dell’umanità perseguitata dal “male” della storia.
L’artista udinese utilizza i calchi dell’archeologia, l’espressionistica irruenza dell’informale, i suggerimenti dell’arte materica, per costruirsi un linguaggio complesso e prezioso, di forte caratterizzazione personale, teso a far germogliare, con empito lirico, in un paesaggio deserto di rovine, le ragioni della vita e della fantasia.
Sculture e dipinti non riproducono oggettivamente situazioni o cose (esse restano al di là, in una regione indeterminata, dalla quale riescono a trasmettere sfumate e struggenti intermittenze evocative). Riaffermando, peraltro, il ruolo della memoria, non solo come costruzione delle civiltà, ma anche nel processo personale di auto individuazione. Noi siamo quel che siamo stati, sembra dire l’artista. Le sue opere sono come i miti per i popoli: frammenti perduti capaci di riaffiorare attraverso la forza creatrice dell’amore.
“Mostro quel che ho veduto”. L’apologo di Bertolt Brecht diventa il filo lungo il quale si dipana il viaggio interiore di Celiberti. E la bellezza, e l’innocenza, devastate “dalla guerra dei carnefici” a ricostruirle “si ricominciò / nel freddo, noi sfiniti, nella fame”: la rinascita delle “città” brechtiane fiorisce sulle rovine erette a monumento di un’offesa subita.

Licio Damiani

(in, Celiberti. Voci dalla memoria, catalogo della mostra, Trieste, 1994, pag.9-11)

 

 

Frammenti di scritture come cicatrici di ustioni, resti monchi di costruzioni devastate da roghi immani, visionari magmi stratificati, reperti di cronache remote rese inconoscibili dalla violenza del tempo, impronte, orme di pensieri, presenze dissolte, grafie nere, marcate o scolorite sul fondo bianco della tela, come urla o come pianti sommessi. Al centro sbarre, imprimiture rosso fuoco. “La mia tinta preferita p il rosso; esprime forza, coraggio; dà anche una sensazione di limpidezza, di  unitarietà” racconta Giorgio Celiberti, il pittore udinese che dona all’impetuosa immediatezza del gesto forti violenze espressive.
Il fare vulcanico dell’artista s’intride di ancestrali memorie collettive e di sedimentate memorie personali di cui riproduce il grumo sensibile lasciato nell’animo: tracce di racconti uditi, di cose viste, di letture, di traumi, elevate in una dimensione epica o pervase di romantiche inflessioni. Comunicano una convulsa ed eccitata tensione al dialogo, dicono un’urgenza di tenerezza, scrigni di sentimenti delicati ed espansivi celati nelle pieghe dell’interiorità più segreta, percezioni di un reale sublimato dal quale vengono estratte le nervature, le linee di forza, i ritmi sincopati di astratto espressionismo. Inquietudini mitteleuropee e solarità mediterranea, angoscia e joie de vivre, si fondono in orgiastiche ebbrezze.
I riquadri d’affresco, le pitture magmatiche, sembrano lo sguardo di uomini che hanno tanto vissuto e che “vedono passare la gioventù”, ruderi che contengono il passato “come le linee d’una mano”, città “in cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto”, scriveva in uno dei suoi libri più noti Italo Calvino, il “viaggiatore incantato” della letteratura italiana del Novecento, l’autore di romanzi, racconti, saggi nei quali fantasia, razionalità, impegno civile si mescolano con l’allegoria e con la riflessione filosofica.
Anche la pittura di Celiberti, che di Calvino è stato amico, fermando in parvenze vaghe le metamorfosi di una forma fluida e mutevole allude a una pluralità di storie fondate su una “sostanza etica”, che si deformano e si riflettono a specchio.
Un magico filo d’Arianna collega nell’artista udinese l’eco della visita, compiuta a metà degli anni Sessanta al lager nazista di Terezin, dove morirono migliaia di bambini ebrei, alla creatività successiva, agitata da turbamenti magmatici, passata attraverso l’informale di Burri, Tapies, Fautrier ridefinito con respiro umanistico. Le testimonianze grafiche lasciate sui muri, la vista dei disegni, la lettura delle poesie e dei frammenti di diario dei piccoli martiri avevano provocato in Celiberti un impatto emotivo così forte e sconvolgente da imprimere una svolta decisiva nella sua produzione.
La tramatura informale accesa e balenante delle tele degli anni Cinquanta e della prima metà degli anni Sessanta, nell’urto con il luogo tragico si ispessì in viluppi cupi e sanguinanti. Attraverso frammenti di storie personali veniva richiamata con profonda pietà la storia della violenza nel mondo. E il gesto si faceva confessione, o rivelazione, ma anche simbolo di purezza e di apertura alla speranza. Ecco allora i titoli delle composizioni, intrisi di valori evocativi, ora drammatici, ora lirici e radiosi: Sentenza finale, Il silenzio degli innocenti, Idioma estinto, da un lato, Resurrezione, Nomadi d’amore, Trame d’amore, Soffocate carezze, Codici nunziali dall’altro.
La memoria quale porta d’ingresso nell’Ade, luogo d’incontro con le ombre che si affollano intorno all’errabondo Ulisse disceso agli inferi per interrogare il passato, per aprire spiragli sulle incertezze del futuro o forse, soltanto, per ritrovare se stesso. Celiberti rendeva eloquenti materiali e residui figurali ricondotti a favolosa sintesi. “I cuori, le farfalle screziate di fitte policromie – spiega – possono far pensare a lievi parentesi idilliache; nascono invece come segni di libertà”.
Su campiture di colori sabbiosi, remoti, si stampano arabeschi di topazio e acquamarina, candori immacolati, vortici nubilosi, grigi di perla, tableaux incandescenti, antri fiammeggianti, pagine d’ambra e d’avorio. S’intrecciano e si allineano in righi serializzati, somiglianti a neumi di un colore gregoriano, i cuori di corallo divenuti un logo nella pittura dell’artista. In quest’Alba di cuori, come recita un altro dei bellissimi titoli, paiono riaffiorare perdute emozioni di una stagione dell’innocenza, insieme alla gioia di assaporare con incantata freschezza la riscoperta di monti antichi e sempre nuovi. Elaborata con dirompente rigore è l’architettura compositiva, nella quale par echeggiare l’amore di Celiberti per Bach: “Quando l’ascolto mi dà come un’estensione del reale. Ogni sua composizione è una scala magica che porta in cielo”.
Accanto allo scavo nei cumuli di ricordi personali, ingorghi emotivi vengono suscitati da evocazioni di eventi mitici, da leggende arcane, dai tesori dello spirito ereditati da popoli favolosi. Rottami della storia emersi da  una sorta di scavo psicanalitico. Veduta sull’Acropoli, Le mura di Ninive, Biblioteca di Alessandria, Campi Elisi, Arazzi di Afrodite, Nella reggia di Ulisse, Testamento di Priamo, L’ira di Achille, Tenda di Agamennone, Sotto le mura di Troia, Profezia di Cassandra sono i titoli dei viaggi nell’immaginazione più cangiante e sfrenata. Una tela è delicata proprio a Itaca, l’isola del “bel viaggio”. Sempre “devi avere in mente Itaca – canta Celiberti con il poeta neogreco Costantinos Kavafis – raggiungerla sia il pensiero costante”.
L’archeologia come sguardo di un tempo ricondotto al presente fa anche da lei-motiv alla scultura. Una patina arcaica vela terrecotte, pietre, materiali plastici, bronzo, acciaio, animati da  un incresparsi tormentato e prezioso di superfici. Si assiepano selve di totem, di stele, di obelischi, chiomati cavalieri barbarici alzano lance e scudi rotondi, s’adunano gruppi equestri, figurette mutile di donne-dee sembrano investite dal vento dei secoli, coppie di sposi sfatti dal tempo si adagiano su sarcofaghi per l’immortale banchetto, Muri e Pavimenti crepitanti di bugnati monocromi, di punte acuminate, di tacche e maculazioni, di frammenti conglomerati danno forma al colloquio con i resti lapidei dei sepolcreti romani, con i lacerti micenei ed etruschi, con i ruderi informi disseminati nella campagna laziale, con gli emblemi longobardi di Cividale del Friuli.
L’artista sembra rileggere l’Odissea omerica attraverso le schegge di un’armonia infranta intrecciate nei Cantos di Ezra Pound. E il viaggio incrocia traiettorie di naufraghi. Dal loro confuso mescolarsi emerge il “viatico” per sciogliere l’enigma di un’identità ritrovata, di una consapevole accettazione. “I sogni cozzano / e si frantumano.” – dice lo scultore con il tormentato poeta americano – “lascia parlare il vento”.
Ma dall’errare per la “selva selvaggia e aspra e forte” di avventure e di destini e dal coacervo indifferenziato di simboli, civiltà, delitti, donazioni, generosi eroismi, continua a levarsi l’appello profetico poundiano: “Uomini siate non distruttori”. La memoria dell’artista si fa salvezza dal nulla, dalla notte degli orrori. Dai cumuli di rovine, dai ruderi eloquenti di una eliotiana terra desolata egli trae la gemma spezzata e la fa rilucere.

Licio Damiani

 

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Celiberti scultore, echi omerici e di Stonehenge

La seconda edizione della Biennale italo-austriaca di scultura Alla corte di Gaia, a villa Giustinian di Portobuffolè, è dedicata a Giorgio Celiberti e a Jos Pirkner. Due artisti della stessa generazione: Celiberti è nato nel 1929, Pirkner nel 1927. Pur appartenenti a culture diverse, entrambi esprimono lacerazioni, tragedie, coagulo di memorie che hanno attraversato il tormentato e vertiginoso corso dei secoli. Le opere sono collocate negli spazi esterni della villa seicentesca, con i quali stabiliscono un dialogo serrato, coinvolgente per spettacolare emotività.
Tre i nuclei in cui si articolano con scenografica ampiezza le installazioni di Celiberti, introdotte dalla ruvida tensione del cavallo davanti alla porta della cappella gentilizia.
Greggi di pecore, di capre, di arieti, destrieri montati da idoli pietrosi si spargono sui prati del parco, a lato e sul retro dell’edificio. Onda misteriosa proveniente come da lontananze arcaiche, di respiro omerico. Rammentano “le pecore pingui” che il gigante Polifemo “pasceva nei pascoli” dell’isola dei Ciclopi, le mandrie del Sole sterminate dai compagni di Ulisse, i cavalli achei erranti nella piana di Troia distrutta, i gruppi equestri apuli plasticamente dirozzati; figure nere, dai musi di satiri o di sileni, sbucati da un mondo infero, epici simulacri carbonizzati di una natura violentata e, insieme, nostalgici echi di un archeologico epos, di una favolosa Arcadia perduta.
I volumi corrosi, butterati, scavati, smangiati dal tempo, si inquadrano nelle prospettive razionali della doppia fila di mutile divinità marmoree, di ninfe e di eroi mitologici appartenenti al décor barocco; drammatico impatto di barbare migrazioni nel cuore luminoso di una civiltà sofisticata ed esausta, di cui resta soltanto il luminoso trionfo dei ruderi.
Il critico Alessio Alessandrini, nel catalogo, osserva con poetica immagine che gli animali bronzei di Celiberti si collocano idealmente fra “i quattro Toros de Guisando, nella campagna a sud di Avila, solitari e silenziosi guardiani d’antichi tratturi”, e il “recinto archeologico di Asur, in Mesopotamia, arido ma in vista delle rive verdeggianti del Tigri”, in cui improvvisamente, “da una nuvola di polvere, irrompe a dissolvere il silenzio un gregge, stretto e compatto, coi belati gravi dei montoni dalle nere corna ricurve e quelli dei teneri agnelli”.
E a un “tempio del cielo”, o al recinto di Stonehenge, rimandano le lastre metalliche ammassate alla rinfusa come dopo un’apocalittica catastrofe. Incise, istoriate, graffite, trattengono frammenti figurali: gatti, elefantini, pesci, scritture arcane, spezzoni di lettere alfabetiche, criptiche orme prelinguistiche, fiori, farfalle, lampeggianti intrichi di “segni” vegetali, messaggi indecifrati portati da un vento turbinoso. Trattengono qualcosa della carica magico-rituale racchiusa nelle pitture preistoriche di Altamira. L’espressività vulcanica dell’artista si alimenta dunque a sedimentate esperienze collettive e personali, di cui non vengono riproposte le forme, ma il grumo sensibile che di esse resta nell’animo; orme di racconti uditi, di cose viste, di impressioni, di traumi “allagati” dalla leggerezza del sentimento, rielaborati con un linguaggio astratto-espressionistico carico di risonanze.[…]

Licio Damiani

(in “Messaggero Veneto”, 24 settembre 2001)

 

 

Dentro comparti di vetro immacolato tralucono irregolari forme verdi e acquamarina, righi sparsi somiglianti a spartiti musicali dissolti in arie lievi. Colombe e farfalle si inscrivono in fondi scuri. Policromi labirinti di finestrelle e brulichii di filigrane scintillano su trasparenze d’ebano come infiorescenze di fuochi d’artificio nelle notti d’agosto. L’arte delicata e suggestiva ferma in segno e oggetti vaghi le metamorfosi di una forma fluida e mutevole. Ricerca tecnologica e genuina felicità d’ispirazione, estro e incantamento poetico, dimostrano in singolari combinazioni la possibilità di trasformare la materia, di abbinarla ad altre, di ottenere straordinari e sensibilissimi effetti tali da competere con la gloriosa tradizione muranese.
Nel corso degli anni il carattere lirico delle opere si è arricchito ed evidenziato, piegando alle proprie ragioni segni, colori, scritture, impaginazioni, materiali, e chiarificando un modo di dirsi e di offrirsi come frammento, come attimo di rara felicità, come barlume di bellezza piuttosto che come organico strumento di conoscenza.
“Bellezza è il farsi visibile dell’anima, è come una calamita; ne sono affascinato e attratto. Tanti i fattori che possono determinarla; è ciò che la natura mi può di volta in volta suggerire,  la suggestione che posso provare visitando un museo, è un incontro inaspettato, è il risveglio da un sogno. La bellezza non ha una faccia sola, è un caleidoscopio. Anche nelle situazioni più drammatiche si possono provare forti emozioni. La grande drammaticità è bellezza. Il volgare invece, a tutti i livelli dà soltanto fastidio; è squallore, miseria, sordità”.
Un magico filo d’Arianna collega dunque l’esperienza di Terezin alla creatività successiva, popolata di tele magmaticamente turbinose, passate attraverso l’informale di un Burri, di un Tapies, di un Fautrier, e ridefinite come respiro umanistico. Nel grandioso affresco, con interventi graffiti, di 840 metri quadrati di superficie, realizzato alcuni anni fa sulle volte dell’Hotel Kavakju di Shirahama nel sud del Giappone, fiori, farfalle, lampeggianti intrichi “ vegetali”, danno gioiosa sintesi espressiva ai temi della vita, dell’amore e della libertà.
“La mia pittura più recente si è fatta chiara, ricca di luce. Dipingo le cose che ho raccolto con tanto amore e con tanta poesia”.
Su questa linea di tendenza si impostano i dipinti scelti per la mostra al Teatro “Giovanni da Udine”. Sulle balaustre affacciate al foyer si dispiegano grandi drappi come festoni, arazzi o vessilli medioevali, o come quelle insegne orientali che svettavano in testa alle antiche armate nipponiche nei film storici di Akiro Kurosawa corruschi di selvaggia epicità. Forse trattengono tracce dell’esperienza giapponese di Celiberti. Forse riflettono il fascino della tappezzeria normanna di Bayeux, che il pittore certamente ammirò durante i giovanili soggiorni in Francia: ricami serici di cortei e di figure araldiche filtrati, a distanza di tanti anni, in sfolgoranti congestioni cromatiche, in accordi corali e in fughe visive.
Ritornano quegli intrecci nelle composizioni intrise di pienezza festosa, di vitalismi empiti, di annodati enigmi, lavagne drammatizzate da fulgenti imprimiture, codici ornati di fulgori, di barlumi dorati, strappi azzurri di sognanti universi. Su partiture di calligrammi corrosi si frangono incroci di segmenti, fonde cromie, luminescenze notturne, riporti squadernati, sgocciolature turchesi, schegge, deflagrazioni, balenii, roghi.
“I miei quadri non nascono da bozzetti preparatori, da un progetto prefissato, nascono sul momento, da un’intuizione. Aspetto che siano finiti per vederne l’esito”.
Arazzi di Afrodite, Porta di Babilonia, Nella reggia di Ulisse sono alcuni titoli evocativi di eventi mitici, leggende, tesori dello spirito ereditati da favolosi popoli mediterranei, in una sorta di scavo psicanalitico. Su campiture di neri assoluti nei quali l’anima sembra affondare si stampano cuori di corallo, arabeschi di topazio e acquemarine, candori immacolati, turbini nubilosi, grigi di pela, bocche incandescenti, antri fiammeggianti.
“L’unico colore che non amo è il colore della tristezza. I colori – confessa l’artista – possono essere tutti belli o tutti brutti; dipende dalla loro collocazione nel contesto. Ma la tinta preferita è il rosso; esprime forza, coraggio; dà anche una sensazione di limpidezza, di unitarietà. Nei miei quadri il rosso è un elemento che stacca, che sottolinea”.
I fraseggi nei grandi teleri si rifrangono, come in un concertato ricco di varianti e di improvvisazioni, nelle opere di dimensioni più raccolte, dispiegando eccitati caleidoscopici e labirinti psichedelici. Si incastonano lacerti di lapidi devastate. L’artista fa lampeggiare con dionisiaca ebbrezza magmi di visionarie stratificazioni, le arrota tridimensionalmente sulle alte colonne, nei volumi morganatici pilastri. Sono alcuni degli elementi “oggetuali” nei quali pittura e linguaggio si incontrano. In stretta simbiosi con l’attività pittorica, un ruolo rilevante nell’opera complessiva di Celiberti occupa infatti la scultura, animata da un incresparsi tormentoso e prezioso delle superfici, velate da una patina arcaica e leggendaria. “Con Celiberti – ha scritto Amedeo Giacomini – forse per la prima volta dopo Medardo Rosso si ha un’osmosi perfetta tra lo specifico della pittura e quello della scultura, un risultato davvero invidiabile e sorprendente”.
Il linguaggio plastico elabora in una sintassi complessa e affascinante, di forte caratterizzazione personale, tipologie remote, l’espressionistica irruenza  dell’informale, inserti materici, la poesia raffinata della citazione, quasi fossero scoperti per caso là dove è passato l’uomo e ha lasciato testimonianza di entusiasmi, di certezze, di smarrimenti.
Si caricano di risonanze arcane l’ampio respiro dei Cavalli e cavalieri drammaticamente impennati; i Bassorilievi incisi di enigmatici geroglifici come pietre tombali di civiltà scomparse; i Conglomerati vegetali in materie plastiche e bronzo che mimano ingorghi di radici e alberi monumentali: e poi i Gatti simili a idoli egizi, gli Uccelli, gli Arieti sacrali, le Capre “omeriche” disegnate sui fondi scuri delle ceramiche con ritmi di pittura vascolare o corpose come amuleti.
A un “tempio del cielo”, o al recinto di Stonehnge, rimandano piastre, slabbrati schemi metallici, pinnacoli, obelischi ammassati alla rinfusa, di cui una sequenza viene proposta negli spazi esterni del “Giovanni da Udine”. Incisi, istoriati di vaghi residui figurali, spezzoni di lettere alfabetiche, corolle, turbinosi messaggi, anno suono cavo, potente; capitoli di un visionario poema trattengono qualcosa della carica magico-rituale racchiusa nella preistoria. L’espressività vulcanica si alimenta a sedimentate esperienze collettive e personali di cui non vengono ripoposte le forme, ma il grumo sensibile che di esse resta nell’animo; echi di racconti uditi, di cose viste, di impressioni, di traumi “allegati” dalla levità del sentimento. Uno sostrato di emozioni e di “materiali” culturali entrati a far parte dello spirito e che continuano, in molteplici forme, ad affiorare.
Si infittiscono le Stele di cemento e metallo, a volte annerite coe da antichissimi incendi. Le tavolette fitte di ideogrammi arieggianti echi ittiti, assiri, ebraici, racchiudono insoluti segreti. E cippi e pietre miliari conservano risonanze di vicende vaghe, dissolte. Celiberti sembra, a volta, ricomporre i documenti contenenti le leggi di Hammurabi o di un’indefinita Eleusi dei misteri, le tavole dei comandamenti ricevuti da Mosè su Sinai, le pietre della cretese Gortina, ma anche le confessioni romantiche tracciate da anonimi ragazzi nelle periferie, in una monumentale storia dei sentimenti.
[…]

Licio Damiani

(I magici colori della vita e dell'amore in catalogo della mostra,Teatro Nuovo Giovanni Da Udine, 2004)

 


Nella fucina di Giorgio Celiberti: il mito, l’archeologia e l’enigma

[…] Su campiture di colori sabbiosi, antichi, si stampano arabeschi di topazio e acquemarine, candori immacolati, turbini nubilosi, grigi di perla, tableaux incandescenti, pagine d’ambra e d’avorio. S’intrecciano o si allineano in righi serializzati, somiglianti a neumi di un corale gregoriano, i cuori di corallo divenuti una sorta di logo della pittura di Celiberti: comunicano una convulsa ed eccitata tensione al dialogo, dicono un’urgenza di tenerezza e d’amore. I riquadri d’affresco sembrano i muretti “dei vecchi che guardano passare la gioventù”, ruderi di città che contengono il passato “come le linee d’una mano”, città “in cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto”, scriveva Italo Calvino in uno dei suoi libri più noti e disorientanti per la pluralità di storie che si deformano e si riflettono a specchio. Con Calvino, Celiberti strinse un intenso rapporto d’amicizia. Il “viaggiatore incantato” della letteratura italiana novecentesca, l’autore di romanzi, racconti saggi nei quali fantasia, razionalità, impegno civile si mescolano con l’allegoria e con la riflessione filosofica, visitò a Torino una personale dell’artista friulano. Insieme si ritrovarono poi nel salotto di Riccardo Gualino, famoso imprenditore, produttore cinematografico, mecenate: personaggio centrale nella cultura di quegli anni. Da allora, ogni qual volta lo scrittore arriva a Roma, dove Celiberti viveva, andava a trovarlo nello studio di Salita del Grillo, interessato alla sua pittura, che definiva affascinante. Come Le città invisibili di Calvino, anche i dipinti dell’artista udinese offrono una pluralità di mappe immaginative che entrano in corto circuito con pensieri, riflessioni, sentimenti e quanto altro giace nel fondo dell’animo di chi guarda.

Licio Damiani

(in “Messaggero Veneto”, 10 ottobre 2007)

 

Licio Damiani

(in “Le Arti”, gennaio-febbraio 1971)

 


Giorgio Celiberti pittore-archeologo

Cuori intrecciati, dipinti e graffiti su “chiarità di muri” o su pareti nero carbone, cuori rossi e azzurri e grigi allineati assieme a riquadri che accennano a impronte, a scritte, a finestrelle d’affreschi scrostati, resi illeggibili dal tempo e da invisibili mani, divenuti segni indecifrabili, brividi pietrificati d’esistenze. Tracce di cuori allineati che sembrano cartilagini di fiori, di foglie, o voli sperduti di farfalle, o forse soltanto picchiettature di vecchi intonaci dalle quali il caso trae composizioni di enigmatiche storie.
Giorgio Celiberti, nelle più recenti opere serigrafiche arricchite da interventi diretti, riassume e reinventa, con freschezza di nuova primavera, un lavoro figurativo pluridecennale, le cui testimonianze articolate nelle varie epoche animano il suo ampio e spazioso studio, udinese, “piccolo compendio dell’universo” di questo artista estroverso, di fantasia incandescente.
Grandi tele segnate da una gestualismo vibrante, da una scrittura di segni che lampeggiano su fondi scuri, terracotte ceramiche, sculture irte di memorie ancestrali, tavoli di un apparente disordine, brulicanti di fogli e di vita.
Di quella vita generosa, ricca di echi, di richiami, di appunti esistenziali. Celiberti ama gli spazi ampi, articolati e labirintici insieme, pagine luminose nelle quali la modernità si carica di contenuti psicologici, a esprimere la vitalità e la generosità dell’uomo e dell’artista.
Celiberti ha un temperamento ricco di complessità interiori, cerca l’incontro, il rapporto con gli altri, ma trattiene in sé un fondo d’innocenza istintiva e primordiale. Nella sua opera anche il richiamo archeologico, diventa modello di un linguaggio figurale, esprime senso di appartenenza a una cultura di respiro umanistico. Atto intimo di autentica religiosità, assume il significato di una ricerca appassionata dei segni dell’uomo e delle sue radici. L’archeologia come sguardo su un tempo ricondotto al presente, come binomio vita-morte, mistero che segna la continuità della storia? L’interiorità dell’artista è la risultante di sedimenti depositati dal mare di vicende, di sensazioni, di impressioni sempre drammatiche avvertite, recenti e remote.
Tutta la pittura di Celiberti è intrisa di questi motivi. La sua gestualità informale, balenante di calligrafie astratte, di magmi indistinti, nasce dalla necessità di recuperare le tracce della presenza dell’uomo, delle sue emozioni, delle sue tragedie.
Ma se nel ciclo di Terezin della metà degli anni Sessanta, ispirato alle poesie dei bambini ebrei deportati e sterminati nei lager nazisti, la tensione emotiva si liberava in una immagine esistenziale ancora ribollente di umori e di violenti cromatismi, se negli Interni/Esterni dalle vaste intelaiature nero-minerali tracce di cronaca quotidiana, divenute spettacolo ripreso dai muri urbani, comunicavano attraverso chiarori bianchi, gialli, rossi e sottili sciabolate di viola un sentimento angoscioso del mondo, carpito con vitalistica e affascinata urgenza, nelle opere successive la tensione si è mineralizzata, è diventata concrezione geologica, come per sottolineare la situazione di una contemporaneità che non offre prospettive di uscita.
Le grandi farfalle, gli uccelli eleganti come fregi di ceramiche persiane che si libravano su cieli oltremarini, le scritte, i cuori intrecciati, si sono ridotti a forme pietrificate, resti di una catastrofe cosmica avvenuta nella coscienza di ognuno.
Il processo si è attuato per gradi. Dapprima le forme si sono atrofizzate nella durezza sabbiosa delle malte, mantenendo inalterato lo splendore dei colori.
Fiori, foglie e uccelli, farfalle apparivano nelle loro impronte ancora freschi, quasi le linfe, pur arrestatesi nel moto vitale, venissero esaltate in tutto il loro splendore nell’attimo magico e ineffabile che ne precede la fine. Il pittore-archeologo si soffermava davanti ad essi con la meraviglia dello scopritore di antichissimi documenti sepolcrali, che ritrova tra le mani i semi dei cereali depositati nella cella funeraria per alimentare simbolicamente lo scomparso, in grado ancora di generare l’ultimo germoglio. Erano foglie e fiori e insetti di una purezza estrema, ma riflessa dalle suggestioni della memoria, bagnati da una luce immobile, interna, irreale. Una bellezza nitida e arcana di cose morte e struggenti, da contemplare nelle bacheche dei musei botanici e di entomologia: bianchi abbacinati di calce, celesti trasparenti, verdi soffici di smeraldo, rosa impalpabili appena ammorbiditi da una sottile polvere secolare. Poi il processo si è fossilizzato, si è completato. Della forma è rimasto il calco nell’argilla, una smorfia di dolore, un grumo di vertebre consumate, il volo degli uccelli per sempre bloccato nelle pieghe del sasso. Fino a che il nucleo organico si è spappolato, è divenuto cenere di deserti pietrificati come i sementi di un’età che ha bruciato ogni valore, resti di un’esplosione atomica già consumata nelle coscienze.
Non rimaneva allora che recuperare le orme di una naturalità devastata, riandare alla ricerca dei segni dell’uomo. Erano i segni di un’era spenta, la cui intensità gestuale consente ancora un atto potenziale di comunicazione. Come i graffiti sui muri di Pompei o le scritte, le incisioni, le lacerazioni lasciate sulle pareti delle carceri di ieri e di oggi dicono d’una realtà esistenziale che si propone come presenza per chi si sforza di leggere e di decifrare, così le grafie, gli ideogrammi, le sbrecciature, gli sfregi impressi nei terrosi affreschi su tela o nelle pagine di libri già stampati da altri, riscritti come fogli di diari personali, esprimono la storia di una umanità che lancia il suo grido contro ogni violenza subita, e la storia collettiva diventa anche storia individuale.
I murali di Celiberti come una discesa nell’inferno del tempo. Burri, Fautrier, Tàpies e gli altri maestri dell’Informale offrono all’artista i supporti di un linguaggio materico, ma i contenuti definiti da questo linguaggio appartengono a una cultura figurale di respiro umanistico.
Il riporto archeologico non determina, comunque, una dimensione mitica del tempo, né si proietta nella direzione di un Citazionismo classicista. L’acquisizione del segno arcaico ed essenziale non avviene come recupero o reinvenzione di culture iconografiche antecedenti ma unicamente la traccia d’una presenza che è sempre uguale nel tempo perché ha sempre tentato disperatamente di superare il tempo. Il colloquio di Celiberti con le scritte lapidarie del sepolcreto di Ostia antica, le tombe etrusche di Tarquinia, i ruderi informi sparsi lungo la via Appia o la campagna laziale, le pietre romane etrusche di Aquileia, gli emblemi longobardi di Cividale, le mura sassose di Venzone, le pagine criptiche di libri sacri remoti, gli obelischi funerari incisi da ideogrammi illeggibili, i totem misteriosi, i muri di centri urbani degradati, eppur vissuti, questo colloquio dunque, avviene al di fuori di ogni metro letterario. “mi piace attraversare i musei guardando ciò che mi serve senza catalogo” confessa Celiberti.
Senza catalogo. Cioè senza schemi culturali predeterminati, senza pretese di collocazione scientifica. L’incisione sul marmo, una striscia di mosaico, un coccio, una parete affrescata, le immagini graffite e rilevate, sono le impronte di un viaggio sempre ricorrente nell’uomo, con la sua gioia e il suo dolore.
Del resto, Celiberti non ripropone, nei suoi frammenti reperti monumentali né stilemi di composizioni appartenenti a una sfera creativa, artistica in sé. Ricostruisce i simulacri di un lavoro anonimo, l’opus incertum e l’opus reticolatum delle costruzioni romane, i massi rozzamente e possentemente squadrati delle mura etrusche, le cinte di sassi che ingrigiscono i vicoli della longobarda Cividale, gli acciottolati delle strade lastricate di Pompei incise dai solchi dei carri come se la vita continuasse a scorrere su di essi ancor oggi, i lacerti d’argilla delle anfore che sbucano dalla terra nuda; una contemporaneità di motivi sui quali si innestano le frecce della segnaletica stradale, le sigle, le figure dei manifesti contemporanei, divenute anch’esse antiche, i dialoghi, le confessioni, gli smarrimenti, la solitudine, la felicità, i sogni dei giovani d’oggi. Il ciclo dell’esistenza umana diventa un ciclo di natura, perenne come le rocce e le pietraie.

Licio Damiani

(in “Arte In”, settembre-ottobre 1992)

 

 

Celiberti: epos d’amore e di dolore

A metà degli anni Sessanta Celiberti conobbe il lager nazista di Terezin, dove morirono migliaia di bambini ebrei. L’impatto emotivo, sull’artista udinese, fu enorme e ne determinò tutta l’opera successiva. Il vitalismo drammatico, espresso nell’istintività creativa del gesto, si sostanziò di profondi contenuti morali. L’atto del dipingere si fece riflessione, traccia d’avventura dolente per gli “amanti – a dirla con il poeta Dylan Thomas – che abbracciano tutte le angosce dei secoli”.
La tramatura informale balenante delle sue tele precedenti – gli Interni/Esterni dalle vaste intelaiature nero minerali, brulicanti di segni astratti, d’impressioni indistinte, accesi da violenti cromatismi carpiti con affascinata urgenza dalla cronaca quotidiana, divenuti spettacolo ricalcato dai muri urbani – si ispessì in viluppi cupi e sanguinanti.
Lo choc di Terezin è stato vissuto da Celiberti, più che nella dimensione di tragedia collocata in uno spazio e in un’epoca definiti, quale occasione per innescare un intimo meccanismo di riflessione sul dolore del mondo. Terezin, narrata con figuratività “scorciata”, singhiozzante, frammentaria, divenuta una delle tante immagini del male, dovunque si annidi e chiunque colpisca.
Il recupero dei disegni, delle scritte, dei frammenti di pensieri e di poesie, incisi dalle piccole innocenti vittime sulle pareti della prigione, ha consentito al pittore di proiettare nel tempo l’universalità di tragedia contenuta nelle loro anime indifese. Attraverso le storie personali – sembra dire l’artista – si compone la storia del mondo. E il gesto, così, si è fatto confessione, o rivelazione, di un patrimonio inesausto di memorie, suggestioni, echi devastati. Ma anche segno di speranza.
Le grafie, gli ideogrammi, le sbrecciature, i cuori intrecciati su “chiarità di muri” o su pareti nero-carbone, cori rossi e azzurri e grigi allineati assieme a riquadri che accennano a imponte, a scritte, a pertugi, a slarghi, d’intonaci scrostati, resi illeggibili, divenuti segni indecifrabili: tutto questo dice di un’umanità che slancia il suo grido contro ogni violenza subita, un’umanità bruciata da un bisogno di dialogo, di comunicazione, “devastata” da un’urgenza di tenerezza e di amore.
Biografie segrete di innumerevoli vittime anonime della storia lasciano tracce sulle superfici delle tele affrontate con impeto, delle malte, dei metalli lavorati e tormentati, o nelle pagine di libri scritti da altre mani, trasformati dal segno e dal colore sovrapposto in appassionati diari privati, “Finestre dell’anima” ricomposte sulle gabbie tipografiche originarie con incubi d’imposte chiuse, con emblemi di esistenze spente, segnali di martirio e di protesta, orme – le ha definite l’autore – di vite fossili. Scorrerne le pagine “significa inciampare, spalancare una porta, imbattersi in uno spazio costrittivo, essere inseguiti e braccati e tuffarsi n una, forse, irraggiungibile libertà”, spaziare nei cieli di cosmografie fantastiche eludendo i condizionamenti, le miserie, le crudeltà del quotidiano. Infissi tarlati e polverosi di balconi recuperati chissà dove svelano, sui vetri appannati, criptografici pensieri d’innamorati ignoti.
La produzione di Celiberti scorre con ritmi febbrili e divoranti. Trasforma l’appunto, la scheggia, l’annotazione rapida, la stenografia delle passioni annegate nell’indifferenza, in elaborata, afferrante architettura compositiva, in squarcio aperto su anelti, su slanci di purezza violata.
Una tensione vitalistica, “prensile”, nella quale si coaugulano, si impastano, brandelli di indefinite vicende collettive e di accenti personali, frantumati e ricomposti in arcani assemblaggi.
Terezin diventa la porta d’ingresso dell’Ade, il luogo d’incontro con le ombre che si affollano intorno all’errabondo Ulisse disceso agli inferi per interrogare il passato.
L’artista rende eloquenti, e risonanti di un’eco di contemplazione pietosa e incantata, materiali e residui figurali delle provenienze più diverse, riconducibili a una favolosa unità alchemica.
Ed ecco gli obelischi con il loro brulichio d’incomprensibili geroglifici, i totem misteriosi avvolti come in una nube di leggenda, i cippi, le pietre miliari che conservano brividi di vicende vaghe, dissolte, i luminosi fiori mineralizzati simili a calchi di un lontano, terso paradiso perduto. Sembrano di sasso e sono invece il prodotto di tecniche sofisticate, supporti di un’Arca vetero-testamentaria e miracolosamente recuperate in labirintiche avventure interiori.
Il pittore-archeologo si sofferma davanti a essi con la meraviglia trepida dello scopritore di antichissimi monumenti sepolcrali, che ritrova fra le mani i semi dei cereali depositati nella cella funeraria per alimentare simbolicamente lo scomparso, in grado ancora di generare l’ultimo germoglio. Una bellezza nitida e misteriosa di cose morte e struggenti: bianchi abbacinati di calce, celesti trasparenti, verdi soffici di smeraldo, rosa impalpabili appena ammorbiditi da una sottile polvere secolare, sciabolate di nero.
Della forma rimane il calco nell’argilla, una smorfia di sofferenza, un grumo di vertebre consumate, il volo degli uccelli per sempre bloccato nelle pieghe del sasso. Fino a che il nucleo si spappola, diventa cenere di deserti pietrificati come i sentimenti di un’età che ha distrutto ogni valore, resti di un “olocausto” consumato nelle coscienze.
Sono i segni di ere spente, la cui intensità gestuale consente, tuttavia ancora un atto potenziale di comunicazione.
Come i graffiti sui muri di Pompei cancellata dall’eruzione vulcanica, o le parole, le lettere abrase, lasciate sulle pareti delle carceri di ieri e di oggi dicono d’una realtà esistenziale che si propone quale presenza per chi si sforza di decifrarli e di capirli, così i balbettii grafici, gli sfregi impressi nei terrosi affreschi su tela, sui supporti che mimano lastre pietrose, dicono di un’umanità che lancia il suo grido contro ogni torto, ogni sua sopraffazione, ogni violenza subita.
L’arte di Celiberti recupera le devastazioni del tempo, rivive sulle macerie disseminate da una barbarie ferina, è raggio di sole che batte su cataste di lapidi spezzate, su lacerti d’affreschi, su frammenti di sculture, di timpani, di architravi decorati di templi, di colonne frantumate, di pagine mutile. Il sole è presente perenne. Il sole è la coscienza nostra, di uomini del presente, che in questi frammenti ritroviamo l”anima” dalla quale siamo stati generati.
Il riporto archeologico non determina, comunque, una dimensione “storica” del tempo, né si proietta in direzione citazionistica. Il segno arcaico ed essenziale non reinventa culture iconografiche antecedenti, fissa una presenza che è sempre uguale nel tempo perché tenta disperatamente di superare il tempo.
Ed ecco, ancora, l’artista aggirarsi, sempre sull’onda del sentimento venutagli da quell’ormai lontano incontro spirituale con i bambini di Terezin, nella memoria dei cimiteri ebraici. Le stele funerarie sembrano essere uscite quasi intatte da incendi catastrofici. La Babilonia delle torri mozze solcate da indecifrabili scritture si erge in aloni corruschi di bibliche scenografie. Si ricompongono i documenti di pietra contenenti le leggi della Torah e gli intrecci della Cabala, si squadernano le tavole dei comandamenti divini ricevuti da Mosè sul monte Sinai, accanto alle confessioni romantiche tracciate da mani anonime di ragazzi sui muri delle periferie, in una informale storia dei sentimenti.
Il ciclo dell’esistenza umana diventa un ciclo di natura, perenne come le rocce e i sassi. E sfida l’oltraggio rilanciando con forza “geologica” il messaggio della propria sacralità.
Perso in una sorta di eliotiana Terra desolata, l’artista “affiorando e affondando” attraverso “gli stadi della maturità e della gioventù”, entra nei gorghi della storia traendone “aride orme” che “non fanno male ad alcuno”, tra guizzare di lampi e “umide raffiche / apportatrici di pioggia”.
Eppure questi frammenti astratti, questi lacerti fossili, risvegliano “radici sopite”, nutrono “secchi tuberi” con linfe di sotterranee energie. E il “cumulo d’immagini infrante” torna a rifulgere e ad animarsi in una fervida luce mentale.
Come nel poema di Thomas Eliot, caposaldo della poesia del Novecento, i temi dell’amore, della morte, della rinascita, che in Celiberti avviene attraverso il sortilegio di ricordi sedimentati nell’animo collettivo, si impastano a nodi di potenziale fertilità; e nell’artista udinese questi nodi approdano a un’accettazione rasserenata del drammatico volgere del tempo.
A Eliot, insomma, ma anche ad altre epifanie poetiche, rinviano le tracce di dimenticati naufragi raccolti dalla pittura e dalla scultura di Celiberti sulle aride spiagge del vivere, e dal loro confuso mescolarsi emerge il “viatico” per sciogliere l’enigma di un’identità ritrovata, di una consapevole accettazione.
“I sogni cozzano / e si frantumano” – dal vortice di versi inquietanti sembra definirsi l’arte di Celiberti – “Lascia parlare il vento / Così è il Paradiso… Lascia che gli Dei perdonino quel che / ho costruito”.
Nell’errare dantesco per la “selva selvaggia e aspra e forte” di esperienze personali e dal magma indifferenziato di simboli, contenenti, civiltà, delitti, donazione generosa, si leva l’appello profetico: “Uomini siate non distruttori”. La memoria dell’artista è la salvezza dal nulla, dalla notte degli orrori. Dai giorni della catastrofe e delle rovine, dal fango dell’indistinto, egli trae la gemma spezzata e la fa rilucere, sia pure per attimi e pulsioni.
La creatività di Celiberti diventa polimaterica. Il reale, la fiumana selvaggia e irrazionale della realtà nel suo scontrarsi, evolversi, precipitare di elementi è assunta nel gran fiume poetico e poesia diventano ogni immagine, ogni oggetto, ogni documento del tormentoso affannarsi dell’umanità perseguitata dal “male” della storia.
L’artista udinese utilizza i calchi dell’archeologia, l’espressionistica irruenza dell’informale, i suggerimenti dell’arte materica, per costruirsi un linguaggio complesso e prezioso, di forte caratterizzazione personale, teso a far germogliare, con empito lirico, in un paesaggio deserto di rovine, le ragioni della vita e della fantasia.
Sculture e dipinti non riproducono oggettivamente situazioni o cose (esse restano al di là, in una regione indeterminata, dalla quale riescono a trasmettere sfumate e struggenti intermittenze evocative). Riaffermando, peraltro, il ruolo della memoria, non solo come costruzione delle civiltà, ma anche nel processo personale di auto individuazione. Noi siamo quel che siamo stati, sembra dire l’artista. Le sue opere sono come i miti per i popoli: frammenti perduti capaci di riaffiorare attraverso la forza creatrice dell’amore.
“Mostro quel che ho veduto”. L’apologo di Bertolt Brecht diventa il filo lungo il quale si dipana il viaggio interiore di Celiberti. E la bellezza, e l’innocenza, devastate “dalla guerra dei carnefici” a ricostruirle “si ricominciò / nel freddo, noi sfiniti, nella fame”: la rinascita delle “città” brechtiane fiorisce sulle rovine erette a monumento di un’offesa subita.

Licio Damiani

(in, Celiberti. Voci dalla memoria, catalogo della mostra, Trieste, 1994, pag.9-11)

 

 

Frammenti di scritture come cicatrici di ustioni, resti monchi di costruzioni devastate da roghi immani, visionari magmi stratificati, reperti di cronache remote rese inconoscibili dalla violenza del tempo, impronte, orme di pensieri, presenze dissolte, grafie nere, marcate o scolorite sul fondo bianco della tela, come urla o come pianti sommessi. Al centro sbarre, imprimiture rosso fuoco. “La mia tinta preferita p il rosso; esprime forza, coraggio; dà anche una sensazione di limpidezza, di  unitarietà” racconta Giorgio Celiberti, il pittore udinese che dona all’impetuosa immediatezza del gesto forti violenze espressive.
Il fare vulcanico dell’artista s’intride di ancestrali memorie collettive e di sedimentate memorie personali di cui riproduce il grumo sensibile lasciato nell’animo: tracce di racconti uditi, di cose viste, di letture, di traumi, elevate in una dimensione epica o pervase di romantiche inflessioni. Comunicano una convulsa ed eccitata tensione al dialogo, dicono un’urgenza di tenerezza, scrigni di sentimenti delicati ed espansivi celati nelle pieghe dell’interiorità più segreta, percezioni di un reale sublimato dal quale vengono estratte le nervature, le linee di forza, i ritmi sincopati di astratto espressionismo. Inquietudini mitteleuropee e solarità mediterranea, angoscia e joie de vivre, si fondono in orgiastiche ebbrezze.
I riquadri d’affresco, le pitture magmatiche, sembrano lo sguardo di uomini che hanno tanto vissuto e che “vedono passare la gioventù”, ruderi che contengono il passato “come le linee d’una mano”, città “in cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto”, scriveva in uno dei suoi libri più noti Italo Calvino, il “viaggiatore incantato” della letteratura italiana del Novecento, l’autore di romanzi, racconti, saggi nei quali fantasia, razionalità, impegno civile si mescolano con l’allegoria e con la riflessione filosofica.
Anche la pittura di Celiberti, che di Calvino è stato amico, fermando in parvenze vaghe le metamorfosi di una forma fluida e mutevole allude a una pluralità di storie fondate su una “sostanza etica”, che si deformano e si riflettono a specchio.
Un magico filo d’Arianna collega nell’artista udinese l’eco della visita, compiuta a metà degli anni Sessanta al lager nazista di Terezin, dove morirono migliaia di bambini ebrei, alla creatività successiva, agitata da turbamenti magmatici, passata attraverso l’informale di Burri, Tapies, Fautrier ridefinito con respiro umanistico. Le testimonianze grafiche lasciate sui muri, la vista dei disegni, la lettura delle poesie e dei frammenti di diario dei piccoli martiri avevano provocato in Celiberti un impatto emotivo così forte e sconvolgente da imprimere una svolta decisiva nella sua produzione.
La tramatura informale accesa e balenante delle tele degli anni Cinquanta e della prima metà degli anni Sessanta, nell’urto con il luogo tragico si ispessì in viluppi cupi e sanguinanti. Attraverso frammenti di storie personali veniva richiamata con profonda pietà la storia della violenza nel mondo. E il gesto si faceva confessione, o rivelazione, ma anche simbolo di purezza e di apertura alla speranza. Ecco allora i titoli delle composizioni, intrisi di valori evocativi, ora drammatici, ora lirici e radiosi: Sentenza finale, Il silenzio degli innocenti, Idioma estinto, da un lato, Resurrezione, Nomadi d’amore, Trame d’amore, Soffocate carezze, Codici nunziali dall’altro.
La memoria quale porta d’ingresso nell’Ade, luogo d’incontro con le ombre che si affollano intorno all’errabondo Ulisse disceso agli inferi per interrogare il passato, per aprire spiragli sulle incertezze del futuro o forse, soltanto, per ritrovare se stesso. Celiberti rendeva eloquenti materiali e residui figurali ricondotti a favolosa sintesi. “I cuori, le farfalle screziate di fitte policromie – spiega – possono far pensare a lievi parentesi idilliache; nascono invece come segni di libertà”.
Su campiture di colori sabbiosi, remoti, si stampano arabeschi di topazio e acquamarina, candori immacolati, vortici nubilosi, grigi di perla, tableaux incandescenti, antri fiammeggianti, pagine d’ambra e d’avorio. S’intrecciano e si allineano in righi serializzati, somiglianti a neumi di un colore gregoriano, i cuori di corallo divenuti un logo nella pittura dell’artista. In quest’Alba di cuori, come recita un altro dei bellissimi titoli, paiono riaffiorare perdute emozioni di una stagione dell’innocenza, insieme alla gioia di assaporare con incantata freschezza la riscoperta di monti antichi e sempre nuovi. Elaborata con dirompente rigore è l’architettura compositiva, nella quale par echeggiare l’amore di Celiberti per Bach: “Quando l’ascolto mi dà come un’estensione del reale. Ogni sua composizione è una scala magica che porta in cielo”.
Accanto allo scavo nei cumuli di ricordi personali, ingorghi emotivi vengono suscitati da evocazioni di eventi mitici, da leggende arcane, dai tesori dello spirito ereditati da popoli favolosi. Rottami della storia emersi da  una sorta di scavo psicanalitico. Veduta sull’Acropoli, Le mura di Ninive, Biblioteca di Alessandria, Campi Elisi, Arazzi di Afrodite, Nella reggia di Ulisse, Testamento di Priamo, L’ira di Achille, Tenda di Agamennone, Sotto le mura di Troia, Profezia di Cassandra sono i titoli dei viaggi nell’immaginazione più cangiante e sfrenata. Una tela è delicata proprio a Itaca, l’isola del “bel viaggio”. Sempre “devi avere in mente Itaca – canta Celiberti con il poeta neogreco Costantinos Kavafis – raggiungerla sia il pensiero costante”.
L’archeologia come sguardo di un tempo ricondotto al presente fa anche da lei-motiv alla scultura. Una patina arcaica vela terrecotte, pietre, materiali plastici, bronzo, acciaio, animati da  un incresparsi tormentato e prezioso di superfici. Si assiepano selve di totem, di stele, di obelischi, chiomati cavalieri barbarici alzano lance e scudi rotondi, s’adunano gruppi equestri, figurette mutile di donne-dee sembrano investite dal vento dei secoli, coppie di sposi sfatti dal tempo si adagiano su sarcofaghi per l’immortale banchetto, Muri e Pavimenti crepitanti di bugnati monocromi, di punte acuminate, di tacche e maculazioni, di frammenti conglomerati danno forma al colloquio con i resti lapidei dei sepolcreti romani, con i lacerti micenei ed etruschi, con i ruderi informi disseminati nella campagna laziale, con gli emblemi longobardi di Cividale del Friuli.
L’artista sembra rileggere l’Odissea omerica attraverso le schegge di un’armonia infranta intrecciate nei Cantos di Ezra Pound. E il viaggio incrocia traiettorie di naufraghi. Dal loro confuso mescolarsi emerge il “viatico” per sciogliere l’enigma di un’identità ritrovata, di una consapevole accettazione. “I sogni cozzano / e si frantumano.” – dice lo scultore con il tormentato poeta americano – “lascia parlare il vento”.
Ma dall’errare per la “selva selvaggia e aspra e forte” di avventure e di destini e dal coacervo indifferenziato di simboli, civiltà, delitti, donazioni, generosi eroismi, continua a levarsi l’appello profetico poundiano: “Uomini siate non distruttori”. La memoria dell’artista si fa salvezza dal nulla, dalla notte degli orrori. Dai cumuli di rovine, dai ruderi eloquenti di una eliotiana terra desolata egli trae la gemma spezzata e la fa rilucere.

Licio Damiani

 


Celiberti scultore, echi omerici e di Stonehenge

La seconda edizione della Biennale italo-austriaca di scultura Alla corte di Gaia, a villa Giustinian di Portobuffolè, è dedicata a Giorgio Celiberti e a Jos Pirkner. Due artisti della stessa generazione: Celiberti è nato nel 1929, Pirkner nel 1927. Pur appartenenti a culture diverse, entrambi esprimono lacerazioni, tragedie, coagulo di memorie che hanno attraversato il tormentato e vertiginoso corso dei secoli. Le opere sono collocate negli spazi esterni della villa seicentesca, con i quali stabiliscono un dialogo serrato, coinvolgente per spettacolare emotività.
Tre i nuclei in cui si articolano con scenografica ampiezza le installazioni di Celiberti, introdotte dalla ruvida tensione del cavallo davanti alla porta della cappella gentilizia.
Greggi di pecore, di capre, di arieti, destrieri montati da idoli pietrosi si spargono sui prati del parco, a lato e sul retro dell’edificio. Onda misteriosa proveniente come da lontananze arcaiche, di respiro omerico. Rammentano “le pecore pingui” che il gigante Polifemo “pasceva nei pascoli” dell’isola dei Ciclopi, le mandrie del Sole sterminate dai compagni di Ulisse, i cavalli achei erranti nella piana di Troia distrutta, i gruppi equestri apuli plasticamente dirozzati; figure nere, dai musi di satiri o di sileni, sbucati da un mondo infero, epici simulacri carbonizzati di una natura violentata e, insieme, nostalgici echi di un archeologico epos, di una favolosa Arcadia perduta.
I volumi corrosi, butterati, scavati, smangiati dal tempo, si inquadrano nelle prospettive razionali della doppia fila di mutile divinità marmoree, di ninfe e di eroi mitologici appartenenti al décor barocco; drammatico impatto di barbare migrazioni nel cuore luminoso di una civiltà sofisticata ed esausta, di cui resta soltanto il luminoso trionfo dei ruderi.
Il critico Alessio Alessandrini, nel catalogo, osserva con poetica immagine che gli animali bronzei di Celiberti si collocano idealmente fra “i quattro Toros de Guisando, nella campagna a sud di Avila, solitari e silenziosi guardiani d’antichi tratturi”, e il “recinto archeologico di Asur, in Mesopotamia, arido ma in vista delle rive verdeggianti del Tigri”, in cui improvvisamente, “da una nuvola di polvere, irrompe a dissolvere il silenzio un gregge, stretto e compatto, coi belati gravi dei montoni dalle nere corna ricurve e quelli dei teneri agnelli”.
E a un “tempio del cielo”, o al recinto di Stonehenge, rimandano le lastre metalliche ammassate alla rinfusa come dopo un’apocalittica catastrofe. Incise, istoriate, graffite, trattengono frammenti figurali: gatti, elefantini, pesci, scritture arcane, spezzoni di lettere alfabetiche, criptiche orme prelinguistiche, fiori, farfalle, lampeggianti intrichi di “segni” vegetali, messaggi indecifrati portati da un vento turbinoso. Trattengono qualcosa della carica magico-rituale racchiusa nelle pitture preistoriche di Altamira. L’espressività vulcanica dell’artista si alimenta dunque a sedimentate esperienze collettive e personali, di cui non vengono riproposte le forme, ma il grumo sensibile che di esse resta nell’animo; orme di racconti uditi, di cose viste, di impressioni, di traumi “allagati” dalla leggerezza del sentimento, rielaborati con un linguaggio astratto-espressionistico carico di risonanze.[…]

Licio Damiani

(in “Messaggero Veneto”, 24 settembre 2001)

 

 

Dentro comparti di vetro immacolato tralucono irregolari forme verdi e acquamarina, righi sparsi somiglianti a spartiti musicali dissolti in arie lievi. Colombe e farfalle si inscrivono in fondi scuri. Policromi labirinti di finestrelle e brulichii di filigrane scintillano su trasparenze d’ebano come infiorescenze di fuochi d’artificio nelle notti d’agosto. L’arte delicata e suggestiva ferma in segno e oggetti vaghi le metamorfosi di una forma fluida e mutevole. Ricerca tecnologica e genuina felicità d’ispirazione, estro e incantamento poetico, dimostrano in singolari combinazioni la possibilità di trasformare la materia, di abbinarla ad altre, di ottenere straordinari e sensibilissimi effetti tali da competere con la gloriosa tradizione muranese.
Nel corso degli anni il carattere lirico delle opere si è arricchito ed evidenziato, piegando alle proprie ragioni segni, colori, scritture, impaginazioni, materiali, e chiarificando un modo di dirsi e di offrirsi come frammento, come attimo di rara felicità, come barlume di bellezza piuttosto che come organico strumento di conoscenza.
“Bellezza è il farsi visibile dell’anima, è come una calamita; ne sono affascinato e attratto. Tanti i fattori che possono determinarla; è ciò che la natura mi può di volta in volta suggerire,  la suggestione che posso provare visitando un museo, è un incontro inaspettato, è il risveglio da un sogno. La bellezza non ha una faccia sola, è un caleidoscopio. Anche nelle situazioni più drammatiche si possono provare forti emozioni. La grande drammaticità è bellezza. Il volgare invece, a tutti i livelli dà soltanto fastidio; è squallore, miseria, sordità”.
Un magico filo d’Arianna collega dunque l’esperienza di Terezin alla creatività successiva, popolata di tele magmaticamente turbinose, passate attraverso l’informale di un Burri, di un Tapies, di un Fautrier, e ridefinite come respiro umanistico. Nel grandioso affresco, con interventi graffiti, di 840 metri quadrati di superficie, realizzato alcuni anni fa sulle volte dell’Hotel Kavakju di Shirahama nel sud del Giappone, fiori, farfalle, lampeggianti intrichi “ vegetali”, danno gioiosa sintesi espressiva ai temi della vita, dell’amore e della libertà.
“La mia pittura più recente si è fatta chiara, ricca di luce. Dipingo le cose che ho raccolto con tanto amore e con tanta poesia”.
Su questa linea di tendenza si impostano i dipinti scelti per la mostra al Teatro “Giovanni da Udine”. Sulle balaustre affacciate al foyer si dispiegano grandi drappi come festoni, arazzi o vessilli medioevali, o come quelle insegne orientali che svettavano in testa alle antiche armate nipponiche nei film storici di Akiro Kurosawa corruschi di selvaggia epicità. Forse trattengono tracce dell’esperienza giapponese di Celiberti. Forse riflettono il fascino della tappezzeria normanna di Bayeux, che il pittore certamente ammirò durante i giovanili soggiorni in Francia: ricami serici di cortei e di figure araldiche filtrati, a distanza di tanti anni, in sfolgoranti congestioni cromatiche, in accordi corali e in fughe visive.
Ritornano quegli intrecci nelle composizioni intrise di pienezza festosa, di vitalismi empiti, di annodati enigmi, lavagne drammatizzate da fulgenti imprimiture, codici ornati di fulgori, di barlumi dorati, strappi azzurri di sognanti universi. Su partiture di calligrammi corrosi si frangono incroci di segmenti, fonde cromie, luminescenze notturne, riporti squadernati, sgocciolature turchesi, schegge, deflagrazioni, balenii, roghi.
“I miei quadri non nascono da bozzetti preparatori, da un progetto prefissato, nascono sul momento, da un’intuizione. Aspetto che siano finiti per vederne l’esito”.
Arazzi di Afrodite, Porta di Babilonia, Nella reggia di Ulisse sono alcuni titoli evocativi di eventi mitici, leggende, tesori dello spirito ereditati da favolosi popoli mediterranei, in una sorta di scavo psicanalitico. Su campiture di neri assoluti nei quali l’anima sembra affondare si stampano cuori di corallo, arabeschi di topazio e acquemarine, candori immacolati, turbini nubilosi, grigi di pela, bocche incandescenti, antri fiammeggianti.
“L’unico colore che non amo è il colore della tristezza. I colori – confessa l’artista – possono essere tutti belli o tutti brutti; dipende dalla loro collocazione nel contesto. Ma la tinta preferita è il rosso; esprime forza, coraggio; dà anche una sensazione di limpidezza, di unitarietà. Nei miei quadri il rosso è un elemento che stacca, che sottolinea”.
I fraseggi nei grandi teleri si rifrangono, come in un concertato ricco di varianti e di improvvisazioni, nelle opere di dimensioni più raccolte, dispiegando eccitati caleidoscopici e labirinti psichedelici. Si incastonano lacerti di lapidi devastate. L’artista fa lampeggiare con dionisiaca ebbrezza magmi di visionarie stratificazioni, le arrota tridimensionalmente sulle alte colonne, nei volumi morganatici pilastri. Sono alcuni degli elementi “oggetuali” nei quali pittura e linguaggio si incontrano. In stretta simbiosi con l’attività pittorica, un ruolo rilevante nell’opera complessiva di Celiberti occupa infatti la scultura, animata da un incresparsi tormentoso e prezioso delle superfici, velate da una patina arcaica e leggendaria. “Con Celiberti – ha scritto Amedeo Giacomini – forse per la prima volta dopo Medardo Rosso si ha un’osmosi perfetta tra lo specifico della pittura e quello della scultura, un risultato davvero invidiabile e sorprendente”.
Il linguaggio plastico elabora in una sintassi complessa e affascinante, di forte caratterizzazione personale, tipologie remote, l’espressionistica irruenza  dell’informale, inserti materici, la poesia raffinata della citazione, quasi fossero scoperti per caso là dove è passato l’uomo e ha lasciato testimonianza di entusiasmi, di certezze, di smarrimenti.
Si caricano di risonanze arcane l’ampio respiro dei Cavalli e cavalieri drammaticamente impennati; i Bassorilievi incisi di enigmatici geroglifici come pietre tombali di civiltà scomparse; i Conglomerati vegetali in materie plastiche e bronzo che mimano ingorghi di radici e alberi monumentali: e poi i Gatti simili a idoli egizi, gli Uccelli, gli Arieti sacrali, le Capre “omeriche” disegnate sui fondi scuri delle ceramiche con ritmi di pittura vascolare o corpose come amuleti.
A un “tempio del cielo”, o al recinto di Stonehnge, rimandano piastre, slabbrati schemi metallici, pinnacoli, obelischi ammassati alla rinfusa, di cui una sequenza viene proposta negli spazi esterni del “Giovanni da Udine”. Incisi, istoriati di vaghi residui figurali, spezzoni di lettere alfabetiche, corolle, turbinosi messaggi, anno suono cavo, potente; capitoli di un visionario poema trattengono qualcosa della carica magico-rituale racchiusa nella preistoria. L’espressività vulcanica si alimenta a sedimentate esperienze collettive e personali di cui non vengono ripoposte le forme, ma il grumo sensibile che di esse resta nell’animo; echi di racconti uditi, di cose viste, di impressioni, di traumi “allegati” dalla levità del sentimento. Uno sostrato di emozioni e di “materiali” culturali entrati a far parte dello spirito e che continuano, in molteplici forme, ad affiorare.
Si infittiscono le Stele di cemento e metallo, a volte annerite coe da antichissimi incendi. Le tavolette fitte di ideogrammi arieggianti echi ittiti, assiri, ebraici, racchiudono insoluti segreti. E cippi e pietre miliari conservano risonanze di vicende vaghe, dissolte. Celiberti sembra, a volta, ricomporre i documenti contenenti le leggi di Hammurabi o di un’indefinita Eleusi dei misteri, le tavole dei comandamenti ricevuti da Mosè su Sinai, le pietre della cretese Gortina, ma anche le confessioni romantiche tracciate da anonimi ragazzi nelle periferie, in una monumentale storia dei sentimenti.
[…]

Licio Damiani

(I magici colori della vita e dell'amore in catalogo della mostra,Teatro Nuovo Giovanni Da Udine, 2004)

 


Nella fucina di Giorgio Celiberti: il mito, l’archeologia e l’enigma

[…] Su campiture di colori sabbiosi, antichi, si stampano arabeschi di topazio e acquemarine, candori immacolati, turbini nubilosi, grigi di perla, tableaux incandescenti, pagine d’ambra e d’avorio. S’intrecciano o si allineano in righi serializzati, somiglianti a neumi di un corale gregoriano, i cuori di corallo divenuti una sorta di logo della pittura di Celiberti: comunicano una convulsa ed eccitata tensione al dialogo, dicono un’urgenza di tenerezza e d’amore. I riquadri d’affresco sembrano i muretti “dei vecchi che guardano passare la gioventù”, ruderi di città che contengono il passato “come le linee d’una mano”, città “in cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto”, scriveva Italo Calvino in uno dei suoi libri più noti e disorientanti per la pluralità di storie che si deformano e si riflettono a specchio. Con Calvino, Celiberti strinse un intenso rapporto d’amicizia. Il “viaggiatore incantato” della letteratura italiana novecentesca, l’autore di romanzi, racconti saggi nei quali fantasia, razionalità, impegno civile si mescolano con l’allegoria e con la riflessione filosofica, visitò a Torino una personale dell’artista friulano. Insieme si ritrovarono poi nel salotto di Riccardo Gualino, famoso imprenditore, produttore cinematografico, mecenate: personaggio centrale nella cultura di quegli anni. Da allora, ogni qual volta lo scrittore arriva a Roma, dove Celiberti viveva, andava a trovarlo nello studio di Salita del Grillo, interessato alla sua pittura, che definiva affascinante. Come Le città invisibili di Calvino, anche i dipinti dell’artista udinese offrono una pluralità di mappe immaginative che entrano in corto circuito con pensieri, riflessioni, sentimenti e quanto altro giace nel fondo dell’animo di chi guarda.

Licio Damiani

(in “Messaggero Veneto”, 10 ottobre 2007)

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